ALGHERO – Ultimamente (Vedi articolI di Lai e Crisponi) si sono verificate numerose manifestazioni di dissenso nei confronti delle attività comunitarie volte a normare il settore vitivinicolo. Non è possibile, tuttavia, non evidenziarne talune lacune di fondo responsabili di distorsioni interpretative. Per esigenze comunicative cercherò di essere necessariamente sintetico, riservando ad altri contesti eventuali approfondimenti. Di contro, il tema abbisogna del precipuo richiamo legislativo. Tra i principali vini sardi dobbiamo ascrivere, senza dubbio, le denominazioni “Vermentino di Gallura DOCG”, “Vermentino di Sardegna DOC” e “Cannonau di Sardegna DOC” citate nei predetti comunicati stampa.
Tali denominazioni fanno capo al DPR 930 del 12 luglio 1963, emanato dopo che dal 1937, con la Legge n.1266, quindi per ben 27 anni, l’Italia dovette assistere ad un problematico vuoto normativo proprio nel settore vitivinicolo. Il DPR recita al suo art. 1 “Per denominazioni di origine dei vini s’intendono i nomi geografici e le qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione – accompagnati o NON con nomi di vitigni o altre indicazioni – usati per designare i vini che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente”. Successivamente la normativa venne ulteriormente perfezionata con la Legge n. 164 del 10 febbraio 1992 la quale, sempre all’art. 1 recita “Per denominazione di origine dei vini si intende il nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata utilizzato per designare un prodotto di qualità e reputato, le cui caratteristiche sono connesse all’ambiente naturale ed ai fattori umani”.
Con quest’ultimo strumento legislativo scompare, pertanto, la possibilità di menzionare nella denominazione d’origine il vitigno; nascono, infatti, solo per citare alcuni esempi nostrani, le DOC “Alghero” e “Cagliari”. D’ora in avanti sarà il terroir (componente ambientale, geopedologica, climatica, umana, di un particolare contesto territoriale) a definire le Denominazioni ad Origine piuttosto che quel particolare vitigno (che pur permane in etichetta ai fini di un maggior dettaglio – es. “DOC Alghero Vermentino”). Perché se è vero che, fatte le dovute eccezioni, differenti vitigni possono trovare dignitosa dimora in tutte le aree a vocazione vitivinicola, lo stesso non si può dire per le condizioni di substrato, climatiche e per il bagaglio di tradizioni umane che, almeno come trinomio, difficilmente risultano eguagliabili in altre aree da quelle, per l’appunto, “a denominazione”.
Nelle more della semplificazione che, come da introduzione, vorrei caratterizzasse queste mie riflessioni, mi trovo costretto a non addentrarmi ulteriormente nei procedimenti legislativi precursori delle singole denominazioni e a chiedermi, fin da ora, il motivo di questa battaglia di donchisciottiana memoria. Trovo del tutto anacronistico sostenere, oggi, una imposizione di copyright nei confronti dell’uso di quel particolare vitigno in etichetta escludendo, di fatto, tutti coloro che potrebbero (oppure lo fanno già da tempo – vedi Australia) vantarne la paternità. Lo si poteva fare, forse, prima del 1992, ma oggi appare quantomeno bizzarro o, comunque, fuori tempo massimo.
Non è una particolare cultivar che porta nel vino quel quid pluris tale da renderlo così apprezzato dal consumatore, né il solo substrato pedologico, né l’esposizione, il clima, né, tantomeno, quella particolare tecnica produttiva, ma è la summa di tutte queste condizioni a determinarne l’inimitabilità e la menzione esclusiva. Esiste una bella definizione che i francesi impiegano per il nostro equivalente vino IGT (Indicazione Geografica Tipica), vale a dire “Vins de pays”: vini del paesaggio, (inteso nella più ampia accezione di territorio, popolazioni e tradizioni). Ricordiamocene ogni qual volta vorremo attribuire ogni merito alle sole uve.
Ferdinando Manconi
Dottore Agronomo
Ispettore Autorità Pubblica Controllo Vini a DO e IG